Siamo antifascisti e antirazzisti. Ed è esattamente per questo che siamo antisionisti. (Rete Italiana ISM)


lunedì 23 maggio 2011

Appello ISM per attivarsi il 5 giugno...


Il diritto al ritorno è un obiettivo centrale della lotta di liberazione palestinese. Dal 1947-1948, quando oltre 750.000 palestinesi sono stati espulsi con la forza dalle loro case - e più di 700.000 hanno subito la pulizia etnica dal loro paese tutto - essi e i loro discendenti si sono organizzati per chiedere la rettifica di questa ingiustizia storica. I profughi della guerra dei Sei Giorni nel 1967 (dopo la quale le forze israeliane hanno espulso 300.000 palestinesi dalla Striscia di Gaza e Cisgiordania), l'amministrazione israeliana dei territori occupati nel 1967-1994 (durante il quale Israele spogliato 140.000 palestinesi dei loro diritti di residenza), la colonizzazione della Palestina in corso e lo spostamento dei suoi abitanti originari, hanno aggiunto le loro ragioni al crescente movimento per il diritto al ritorno.

Negli ultimi anni, il diritto al ritorno è emerso anche come una richiesta chiave degli attivisti nei movimenti di solidarietà alle aspirazioni di libertà dei palestinesi. Il 9 luglio 2005, per esempio, l'appello della società civile palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) - il documento fondante di un movimento globale guidato dai palestinesi per la giustizia in Palestina - ha affermato che "le misure punitive nonviolente devono essere mantenute fino a quando Israele rispetterà l'obbligo di riconoscere il diritto inalienabile del popolo palestinese all'autodeterminazione e si conformerà pienamente a quanto sancito dal diritto internazionale ... rispettando, proteggendo e promuovendo i diritti dei profughi palestinesi a tornare alle loro case e proprietà".

Oggi i sette milioni di rifugiati palestinesi sono il più grande gruppo di rifugiati al mondo, un terzo della popolazione totale di rifugiati. Il loro diritto di tornare alle proprie case, e di ricevere un indennizzo per i danni causati su di esse, sono sanciti dal diritto internazionale. La risoluzione 194, che l'assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato in data 11 dicembre 1948 e Israele ha accondisceso ad attuare, come condizione della sua successiva l'ammissione alle Nazioni Unite,

sancisce che i rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero essere autorizzati a farlo al più presto possibile, e che deve essere pagato un risarcimento per le proprietà di coloro che scelgono di non tornare e per la perdita o il danneggiamento delle proprietà che, secondo i principi del diritto internazionale o in equità, dovrà essere versato dai governi o dalle autorità responsabili.

Inoltre, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani , adottata dall'Assemblea Generale il 10 dicembre 1948, afferma che "ogni individuo ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese." E la risoluzione 3.236 , che l'Assemblea Generale ha adottato il 22 novembre 1974, “...ribadisce il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare nelle case e proprietà da cui sono stati sfollati e sradicati, e chiede il loro ritorno".

Nonostante i suoi chiari obblighi secondo il diritto internazionale, Israele continua a porre resistenza alle richieste da parte dei rifugiati palestinesi che hanno il diritto di tornare alle loro case. Più recentemente, domenica 15 maggio durante la 63° commemorazione della Nakba, o "catastrofe", della pulizia etnica della Palestina 1947-1948, le truppe israeliane hanno risposto alle manifestazioni da parte dei rifugiati inermi marcia verso le loro case con una forza letale.

Le forze israeliane hanno ucciso almeno 15 manifestanti su tre confini (con Gaza occupata, Libano e Siria e tra le alture del Golan occupate), ferito centinaia di persone con armi da fuoco, proiettili di artiglieria e gas lacrimogeni, e scatenato una ondata di arresti e repressione in West Bank occupata. Questa massiccia violenza potrebbe essere stata progettata come una dimostrazione di forza bruta, finalizzata, insieme con affermazioni ripetute Benjamin Netanyahu che "non succederà", a dissuadere i profughi palestinesi dal far valere i propri diritti storici e sfiancare il consenso mondiale per il diritto al ritorno.

Ma la storia che più a lungo resterà impressa nelle nostre menti dal 15 maggio potrebbe essere quello di Hassan Hijazi. Profugo siriano di 28 anni, ha sfidato la sparatoria che ha ucciso altri quattro lungo il confine con la alture del Golan occupato, ha fatto l'autostop e, infine, ha preso un autobus, fino a casa della sua famiglia a Jaffa. Prima di andare lui stesso dalla polizia di Tel Aviv, ha detto ai giornalisti israeliani, "non ho avuto paura e non ho paura. Sul bus a Jaffa, mi sedetti accanto a soldati israeliani. Mi resi conto che erano più paura di me. "

Altri milioni di persone hanno deciso di seguire il percorso di Hijazi. Domenica 5 giugno, durante la commemorazione del 44 ° Naksa, o battuta d'arresto, l'espulsione israeliana nel 1967 di 300.000 palestinesi dopo la Guerra dei Sei Giorni, i rifugiati palestinesi torneranno in massa alle frontiere. Il 18 maggio, annunciando la mobilitazione, la “Third Intifada Youth Coalition” ha detto, "Gli ultimi giorni hanno dimostrato che la liberazione della Palestina è possibile e concretamente ottenibile anche con una massiccia marcia disarmata se la nazione decide che è pronta a pagare tutto in una volta per la liberazione della Palestina".

La Commissione preparatoria per il diritto al ritorno, un organismo di coordinamento non schierato con nessun partito, ha chiesto che i sostenitori della lotta di liberazione palestinese di attivarsi per il 5 giugno, organizzando manifestazioni, marce e proteste in tutto il mondo esigendo il diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare alle loro case. Luoghi adatti potrebbero includere le ambasciate, i consolati, e le missioni israeliani, gli obiettivi della campagna BDS, e governi stranieri e organizzazioni internazionali che consentono i crimini israeliani.

"Le manifestazioni del 15 maggio non erano un caso isolato, ma erano piuttosto l'inizio di una nuova fase di lotta per la storia della causa palestinese, dal titolo: 'il diritto dei profughi a tornare alle loro case '", afferma una dichiarazione da parte della Commissione.

Per la prima volta, i palestinesi sono passati da commemorare la loro deportazione con le dichiarazioni, festival e discorsi, a tentativi reali di tornare alle loro case.

L'immagine di profughi in marcia da tutte le direzioni verso la loro terra di Palestina ha inviato un forte messaggio al mondo intero: i rifugiati sono decisi a tornare alle loro case per quanto tempo ci voglia: 63 anni non sono stati sufficienti a uccidere il loro sogno di tornare, e le nuove generazioni nate in esilio forzato che non hanno mai visto la loro terra d'origine non sono meno collegate ad esse dei loro nonni e padri che hanno assistito alla Nakba.

Quello che è successo il 15 maggio era solo un piccolo esempio di quello che accadrà presto, una marcia che sarà effettuata dai profughi palestinesi e di coloro che li sostengono. Passeranno il filo spinato e torneranno ai loro villaggi e le città occupate.

La folla si radunerà fuori da ogni dove: ci saranno rifugiati palestinesi dalla Cisgiordania, dalla Striscia di Gaza e dai confini della Palestina occupata con Giordania, Siria e Libano, in marce pacifiche alzando la bandiera palestinese e il nome dei loro villaggi e le città, le chiavi alle loro case, e documenti di certificazione.

I “venti di cambiamento” della primavera araba soffiano tra i campi profughi, non meno che nelle capitali arabe, verso la Palestina. Ed essi non mostrano segni di volersi fermare.

1948 - Palestina

Il 5 Giugno i palestinesi torneranno al confine, e chiedono il vostro supporto!

Immagina questo.


Immagina che arrivino degli stranieri, armati, a casa tua. Immagina che arrivino nel tuo villaggio, nelle tua città. Immagina che uccidano buona parte degli uomini e dei giovani. Immagina che ti mandino via da casa tua. Che ti costringano ad andartene in un Paese che per te è straniero. Supponi di non poter più mettere piede nel Paese in cui sei nato, perchè questi stranieri che vi si sono insediati non te lo permettono. Non lo permettono a te, non lo permettono ai tuoi figli. Questi stranieri armati racconteranno ai loro figli che tu non ci sei mai stato, che non hai mai vissuto a casa tua...che quella è sempre stata casa loro e prima di loro non c'era nessuno. Ricordi gli alberi di ulivo e i mandorli che tuo nonno aveva piantato? Quegli alberi li, secondo i loro racconti, saranno specie autoctone cresciute spontaneamente.


Immagina che queste persone si insedino a casa tua, che cambino la serratura e che camminino per casa tua: magari cambieranno i mobili, cucineranno piatti che non conosci nella tua cucina e dormiranno nei tuoi letti. Oppure, se questo non accade, raderanno al suolo tutte le case del luogo dove hai vissuto e nemmeno nelle foto potrai riconoscere il tuo villaggio.


Immagina questo.


E poi immagina che tutto questo sia stato portato avanti con l'appoggio della comunità internazionale, con l'avvallo delle potenze economiche..immagina che citino l'olocausto, una tragedia compiuta da altri, per giustificare quello che tu chiami nakba, catastrofe. Quella che lo stesso storica israeliano Ilan Pappè spiega perchè si può definire "pulizia etnica"


Dopo che ti hanno esiliato, questi stranieri hanno fatto uno stato in quello che prima era il tuo paese, e lo hanno chiamato Israele. Ma nel tuo cuore, quello non si chiama Israele, si chiama ancora Palestina. E tu vuoi tornare a casa. I potenti, quelli che stano in alto, adesso firmano accordi che prevedono che tu mai e poi mai possa tornare a casa, e li chiamano accordi di pace. In passato l'ONU aveva fatto una dichiarazione, la 194, che dichiarava che tu avevi il diritto di tornare a casa. Poi se ne sono dimenticati. O semplicemente hanno deciso che quella non era più casa tua.





Tu lo accetteresti? Ti accontenteresti di vivere in un paese straniero per il resto della tua vita, ti starebbe bene crescere i tuoi figli in terra straniera?



Il 15 maggio migliaia e migliaia di palestinesi si sono avviati verso casa, con manifestazioni ai confini di Israele. Israele ha risposto con forza assassina. Il 5 giugno torneranno, si avvieranno di nuovo verso casa. Per favore accompagnateli. Con presidi alle ambasciate israeliane, con azioni di boicottaggio, con quello che volete. Loro chiedono la vostra solidarietà. Vogliono tornare a casa.

(libro consigliato: pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappè)

sabato 21 maggio 2011

“la vedi quella terra li? Quella terra è mia e non ci posso andare.”



L'8, il 9 ed il 10 di maggio sono stati 3 giorni di raccolta del grano per alcuni contadini di Khuza'a, villaggio vicino al confine con israele nel sud della striscia di Gaza. Per tre giorni essi si sono recati nei campi, partendo molto presto la mattina e raccogliendo i frutti della loro terra. Per 3 giorni dalle torrette automatizzate le forze di occupazione israeliane hanno sparato e per tre giorni i contadini hanno continuato a raccogliere il grano, senza permettere a chi sparava dalle torrette a controllo remoto di impedire loro di recarsi alla propria terra.

L'area dove i contadini, insieme con 3 attivisti internazionali dell'ISM e 5 attivisti palestinesi si sono recati si trovava a circa 450 metri dal confine. Prima della seconda intifada qui venivano coltivati angurie e meloni, c'erano alberi da frutto ed olivi. “venivamo qui a fare barbecue, festeggiare e rilassarci... le jeep israeliane passavano in lontananza ma non ci disturbavano, ci lasciavano in pace.” racconta Akhmad. Oggi gli alberi sono stati sradicati, le piante distrutte. L'unica cosa che si riesce a coltivare, perché non richiede attenzioni continue, è il grano. Però anche il grano necessita di diverse ore di lavoro per essere raccolto, ed i cecchini si divertono a terrorizzare i contadini in queste ore.

L'8 di maggio sui campi oltre agli attivisti erano presenti inizialmente 8 agricoltori, per lo più donne, ma anche un bambino di 13 anni ed una bambina di 7 anni, tutti fratelli e sorelle di una delle famiglie anNajjar risiedenti nel villaggio. Stavano nei loro 10 dunum di terra raccogliendo il grano giallo oro in diverse fascine, quando anche i vicini, svegliatosi, hanno pensato che la presenza di attivisti (stranieri e non) potesse proteggerli nel lavoro, ed hanno deciso si allontanarsi più del solito per raccogliere erbe da dare a mangiare agli animali. Dove finiscono i campi di grano il terreno è incolto e solcato da dune e fossi causati dai bulldozer israeliani, crescono cespugli spinosi e piccole piante che sembrano secche, ma che sono un buon mangime per asini e pecore. Una donna chinata a raccogliere queste erbe alza il volto, allunga il braccio e punta il dito verso una duna a poche decine di metri: “la vedi quella terra li? Quella terra è mia e non ci posso andare.”
E dalle torrette, le forze di occupazione israeliane non hanno tardato a ricordare chi ha il potere di decidere quali terre possano o no coltivare questi contadini: si sono uditi degli spari in aria, divisi in 2 raffiche tra le 7.40 e le 8.30. Prima delle 9:00, improvvisamente e senza preavviso, 3 proiettili sono atterrati a 50 metri o meno da chi stava lavorando la propria terra. Quando qualcuno spara in aria si sente solo un colpo, ma se il proiettile viene nelle tua direzione è possibile sentire il sibilo, ed il colpo dell'atterraggio. Il terreno era sabbioso e quindi, dopo i sibili, si sono levate 3 nuvole di polvere. Vicine, troppo vicine a un gruppo di quasi 20 civili che lavorava in maniera pacifica. Qualche decina di minuti dopo un uomo, inviperito, interrompe la sua raccolta dell'erba per gli animali e indica al di la del confine, dove un trattore sta arando un terreno: “guarda, gli israeliani possono coltivare indisturbati. Noi, invece, se usciamo qui fuori ci sparano contro!”.

Il secondo giorno anche un altro gruppo, sempre legato alla famiglia allargata anNajjar, ha iniziato a raccogliere il grano nella terra vicina, anch'essa che si estende su un'area di 10 dunam. Quindi in tutto erano presenti più di 10 contadini intenti a raccogliere il grano e qualche donna che raccoglieva erbe. Ma quanto possono rendere 10 dunam di terra? Akhmad anNajjar prova a quantificarlo: “in passato ci portavamo a casa 50-60 borse da un kg di grano, adesso ne riusciamo a fare tra le 10 e le 20: non riusciamo a prenderci cura della terra perchè non possiamo raggiungerla, e coltivandola sempre a grano per tanti anni di seguito si impoverisce:la dimensione de chicco è molto molto più piccola di quella che era 10 anni fa!”. Dalle torrette di controllo hanno sparato verso le 7.30 e verso le 8, il movimento di jeep e carri armati al di la del confine si cominciava a fare insistente. Il terzo giorno jeep e carri armati hanno continuato a spostarsi incessantemente, alzando nugoli di polvere in quella terra che oggi è riconosciuta come israeliana. Gli spari non sono mancati. Un uomo ci ha spiegato: “tutti i giorni le jeep israeliane si spostano e fanno i loro balletti al di la della rete. Tutti i giorni sparano. Però quando c'è presenza di internazionali sparano un po' meno.”

Khuza'a è un villaggio di contadini che si trova al sud della striscia di Gaza, nel governatorato di Khan Younis. Il centro di Khuza'a si trova a circa un km dal confine, mentre circa l'80% delle terre coltivabili (per un totale di 2000dunam) si trova in aree dove è alto il rischio di essere colpiti dai proiettili israeliani o in zone in cui l'entità sionista ha unilateralmente proibito l'accesso, la cosiddetta “buffer zone”. Moltissimi dunam non sono possono affatto essere coltivati, e l'accesso stesso ad alcune terre è stato ostruito dalle forze di occupazione. Secondo un rapporto dell'ONU, in tutta la striscia di Gaza le aree coltivabili che rientrano nella “zona ad alto rischio” comprendono il 35% delle terre coltivabili dai palestinesi, e non sono rari i casi di contadini feriti anche gravemente od uccisi mentre si recavano a coltivare la propria terra.

Akmad spiega perchè ancora e di nuovo nonostante tutto lui e la sua famiglia si recano li a raccogliere il grano: “Vogliamo mangiare, vivere e fare una vita normale. Questo è un nostro diritto, questa è la nostra terra, non ce ne andremo, non abbandoneremo i nostri campi, anche se Israele continua a sparare e cercare di intimorirci.”




Questo pezzo è stato pubblicato sia su Peacereporter che su nena news...

mercoledì 18 maggio 2011

Terza intifada


Anche a Gaza, come in Siria, Egitto e Giordania, la giornata della Nakba di quest'anno è stata segnata da imponenti manifestazioni ai confini di Israele che chiedevano il diritto al ritorno dei profughi palestinesi alla loro terra, e da una violentissima repressione messa in atto dall'esercito israeliano. Il 15 di maggio è il giorno della Nakba (“catastrofe” in arabo), l'anniversario della pulizia etnica della Palestina da parte delle forze di occupazione sioniste. Solo a Erez, striscia di Gaza, le forze di occupazione hanno causato 105 feriti e un morto.

Verso le 10.30 diverse migliaia di persone si sono recate al check point di Erez ed alle 12 si sono avvicinate al confine israeliano. È stato sorpassato il primo check point gazawo, è stato raggiunto l'inizio del tunnel che porta al territorio israeliano, e ci si è avviati per la strada che costeggia il tunnel. Il senso di questa manifestazione, come delle altre agli altri confini con Israele, era quello di chiedere il diritto al ritorno. Durante la Nakba centinaia di maigliaia di palestinesi sono stati deportati dai loro villaggi e costretti a vivere in terre straniere: solo a Gaza i 75% della popolazione è composta da rifugiati.

Mentre una folla di alcune migliaia di persone si avviava per quella strada, 4 granate sono state lanciate da un carro armato posizionato sulla destra per atterrare alla sinistra dei dimostranti. Il suono delle granate, quando sono vicine, scuote dentro dalla paura, paura che se le granate fossero atterrate nella folla dei manifestanti, avrebbero provocato una strage. Ma la paura, si sa, non riesce a fermare questo popolo fiero, questi uomini, donne e ragazzini. Mano a mano che la folla si avvicinava da due torrette di controllo posizionate vicino al confine le forze di occupazione hanno iniziato a sparare. Spiega Saber: “Sulla torre di fronte a noi c'è un cecchino: quello non sbaglia un colpo, ogni proiettile che spara raggiunge esattamente il bersaglio. Sulla torretta a sinistra invece è montata una macchina a controllo remoto che spara proiettili di calibro molto più grosso, quelli sono illegali secondo la legge internazionale.” E il pericolo aggiuntivo veniva dal fatto che nella linea d'aria tra la torretta a controllo remoto ed i manifestanti c'erano dei cespugli, che impedivano parzialmente o completamente la visuale e che quindi facevano si che l'arma non potesse garantire di colpire esattamente l'obiettivo che chi la manovrava si aspettava di colpire. Sotto quella collina e tra quei cespugli ragazzi palestinesi si nascondevano per riuscire ad issare la loro bandiera in cima alla collina, per dimostrare ed affermare di nuovo che quella è la loro terra. I cecchini non avevano pietà.

Nessuno tra i palestinesi portava armi, nessuno rappresentava una reale minaccia per Israele. La manifestazione era la prima unitaria da quando sono stati firmati gli accordi per l'unità nazionale: sebbene la bandiera più diffusa fosse quella palestinese, c'era chi portava segni evidenti di Fatah, di Hamas e del PFLP. Tutte le fasce della popolazione erano rappresentate, c'erano diversi bambini e donne. Nalan, ragazza di ventun anni, per esempio racconta: “io volevo spingermi più avanti in prima fila, perchè è la mia terra, e volevo stare di fronte. Ma i miei amici mi tiravano indietro e volevano tenermi più al sicuro...”.

Ricordo una donna ferita, intorno ai 30 anni, svenuta e che nella caduta ha sbattuto la testa contro un muretto. Ricordo che in generale era difficile trovare 10 minuti di pausa tra gli spari. Verso le 4, alcuni soldati (probabilmente sei) sono usciti dalla porta del confine ed hanno iniziato ad usare anche lacrimogeni di un gas tossico, pericolosi sia per inalazione sia perchè venivano lanciati in aria e potevano facilmente cadere in testa a qualcuno. Ad un certo punto sento uno schianto -forte da far male al timpano- alla mia sinistra, e, voltandomi, vedo un uomo che sollevava il braccio con una mano inerme ed un grosso buco al posto del polso, si vedeva la carne ed il sangue sgorgava a fiotti. I feriti venivano portati via dai compagni prendendoli per le gambe e le spalle. Uno di questi lo ricordo che si teneva una mano sulla guancia sanguinante, non so se fosse stato colpito alla faccia da un proiettile o da una scheggia ma perdeva molto sangue. Le ambulanze fortunatamente potevano avvicinarsi al luogo delle violenze. Ho imparato che in arabo sangue si dice fosfor, perchè chiunque indicasse la mia maglia lo diceva: un uomo maciullato dai cecchini israeliani vicino a me ha imbrattato la mia maglietta di sangue e mi ha schizzato addosso briciole di carne. Il tuo sangue è il mio sangue, la tua lotta la mia lotta, fratello.

Secondo il Palestinian Center for Human Rights il numero totale dei feriti è 105, tra cui 31 bambini e 3 donne, e 3 giornalisti. Uno dei giornalisti, colpito da una scheggia alla spina dorsale, è rimasto paralizzato. E poi c'è un morto, un ragazzino di 16 anni. Sono stati portati in tre diversi ospedali della striscia, e, incredibilmente, alcuni dei feriti lievi dopo venire medicati in ospedale tornavano in manifestazione. Altri, preferivano rimanere al confine piuttosto che farsi medicare: ho l'immagine di un ragazzo con una gamba ferita, i pantaloni strappati dalla probabile scheggia che lo ha raggiunto e sporcati di sangue, con una bandiera legata alla gamba perché preferiva rimanere in manifestazione piuttosto che farsi medicare.

Saber, entusiasta, alla fine della manifestazione esclama: "spero che ora i media e l'occidente si rendano conto che non siamo violenti, che non siamo terroristi come ci dipingono. Spero che
le cose cambino."
Questi sionisti possono sparare da tutte le torrette del confine e da tutti i potenti carri armati che hanno, i manifestanti hanno dimostrato di non volersene andare. Possono continuare a sequestrare la barche ai pescatori, a sradicare ulivi, a uccidere donne bambini e uomini. Ma con tutte le loro corazze, muri e modernissime armi tecnologiche non riusciranno a sfiancare la volontà di resistere di un popolo che resiste da 63 anni, di un popolo che non abbandona la sua terra, di un popolo che vincerà perchè se non si è ancora arreso non si arrenderà mai.