Questa notte ti vorrei
scrivere una lettera, vorrei scriverla come se tu potessi leggerla,
come fingendo.
Ricordo della tua scritta
“mukawama” sul braccio, che vuol dire resistenza.
Resistenza, come quella
dei contadini palestinesi, come quella dei partigiani sulle nostre
montagne.
Ricordo di come spiegavi
che se siamo tristi non abbiamo il diritto di portare la nostra
tristezza sui palestinesi, di come a volte ti chiudevi in casa (chissà quali
ferite ti stavi curando), di come quando invece uscivi eri sempre
pronto a scherzare e ridere con tutti e tutte. Quasi che avessi
assunto come ruolo, quello di portare un po' di allegria intorno a te.
Quasi che quell'allegria contagiosa, fosse essa stessa una forma di
resistenza. Certamente lo era, senza il quasi.
Ricordo della tua scritta
“mukawama” sul braccio, che vuol dire resistenza.
Di come quella resistenza
l'avessi vissuta anche in Cisgiordania, prima di venire a Gaza. Di
come insistevi dicendo che gli attivisti, prima di andare a Gaza, andassero in
Cisgiordania. Di come per te fosse così importante che i due pezzi
di Palestina occupati nel '67 fossero collegati.
Resistenza. E, quasi
fosse naturale, la collego alla firma che mettevi, quando scrivevi di
come il popolo palestinese resiste ad un'occupazione genocida, che
dura da troppe decine di anni. Resistere significa restare umani, e
restare umani significa resistere.
Mukawama sono anche la
tenacia e la coerenza con cui portavi avanti la lotta contro il
sionismo, senza dimenticare di contestualizzare, senza dimenticare
chi eri e da dove venivi, senza smettere di parlare anche dell'altra
resistenza, quella dei vicini di mediterraneo, quella delle strade e delle piazze nelle nostre
città.
Sul braccio avevi
tatuato “mukawama”.
E quella resistenza la
portavi con te in ogni attimo, in ogni respiro. In ogni sorriso, in
ogni battuta scherzosa. Ogni volta che che riuscivi a comunicare con
chi avevi di fronte in maniera chiarissima, sebbene non parlasi
perfettamente l'inglese, e il tuo arabo fosse “shway shway”.
Certe volte non è necessario parlare perfettamente una lingua,
quando i cuori e le menti si intendono. Quando con un sorriso
riuscivi a dire “fratello” senza aprire bocca. Quando ogni volta
che si andava ad una manifestazione, a sentir te sembrava che
qualsiasi cosa fosse un cattivo presagio e, scherzando, proferivi
ogni sorta di funesti presagi.
“Mukawama”,
resistenza, è un nome collettivo.
Come quando insistevi,
perché si provasse a lavorare tutti e tutte assieme. Senza
accomodare la tua posizione, senza fare sconti su ciò che è giusto;
ma nondimeno senza negare la chiacchierata, la battuta, o perlomeno
il sorriso a nessuno. Di come abbracciassi i palestinesi che avevi di
fronte, con un abbraccio saldo e fraterno, indipendentemente da
quante cose questi potessero aver fatto diversamente da come avresti
fatto tu. Credo che ci volesse un fortissimo autocontrollo, cioè,
una grande forza. E, anche, tanta umiltà. La stessa umiltà che
serve per capire che la lotta è tale solo se collettiva, che
ciascuno è necessario, ma nessuno fondamentale. Che non esistono
eroi, ma si può vincere questa lotta solo assieme.
Ricordo di come sei stato
obbligato dalle circostanze a diventare reporter a Gaza. Eri un
attivista, non un reporter, e lo sei rimasto orgogliosamente fino
alla fine. Eppure, quando non c'era alternativa, hai dovuto fare
anche il reporter. E quando c'era da farlo, lo facevi bene.
La prima volta che ho
incontrato te, e la tua scritta “mukawama” sul braccio, era di
fronte al porto di Gaza. Fumando sciscia. Osservando le luci di la
del porto. Quelle luci che, dicevi, venivano dai pozzi petroliferi
israeliani “si dice che la ragione per cui i pescatori palestinesi
non possono uscire a pescare oltre le 3 miglia siano quei pozzi”
raccontavi. Li conoscevi bene quei pescatori, anche perché li avevi
accompagnati nelle barche, a cercare di valicare il limite assurdo
che l'occupazione sionista aveva imposto loro. Come i contadini,
come i guidatori di ambulanze.
Te non lo sai, ma per
giorni, da dopo che ti hanno ammazzato, sono continuate le
manifestazioni a Gaza per ricordarti. Te non lo sai, ma tutt'oggi,
anche persone che te non hai mai conosciuto, continuano a indossare
magliette col tuo volto, perché non ti dimenticano. Può darsi che
tu sappia che ci sono decine di persone che si sono avvicinate alla
Palestina perché ti hanno conosciuto, ma non credo che tu sappia che
a centinaia hanno scoperto il dramma dell'occupazione e la forza di
un popolo che resiste da dopo la tua morte. Vorrei che sapessi che se
siamo così tanti è anche per merito tuo. Ti preferiremmo tutti
ancora al nostro fianco, ma sappiamo che la tua è stata una vita
piena, e pienamente vissuta.
C'era quel tizio, quello
del fronte, a Khan Younis. Era preoccupato, perché diceva che ora
che la mano che ti aveva fisicamente ammazzato era palestinese, dall'Italia non
avrebbero capito a chi quell'omicidio avrebbe fatto comodo, quali
siano stati i mandanti che ne traevano vantaggio. Diceva, che ci
sarebbero voluti altri 60 anni, per riguadagnare la solidarietà che
c'era prima. Diceva così ed io gli rispondevo che stava succedendo
il contrario, perché a centinaia volevano continuare a fare ciò che
anche tu stavi facendo, a centinaia avrebbero portato avanti la lotta
che era anche tua.
Certe volte penso, Vik,
vorrei non essere stata a Gaza quella notte. Vorrei non essere mai stata in quella casa. Vorrei non averti visto steso a terra morto con quel laccio di
plastica al collo che ti aveva strangolato. Con la benda sollevata,
con i polsi feriti da ciò con cui ti avevano legato. Morto in una
maniera orribile, in cui certamente non avresti voluto morire. Vorrei
non essere stata testimone, vorrei non averlo dovuto dire a nessuno,
vorrei non fosse mai accaduto e se avesse dovuto accadere avrei
voluto essere distante. Distante un milione di chilometri e chiudere
gli occhi con le mani fingendo che non era vero. Invece, così, non
ho più potuto fingere che non era vero. Avevamo finito di giocare.
Sai, dalle mie parti c'è
un detto che dice che “chi ha compagni, non muore mai”, e io penso
che non sia vero. Perché tu avevi compagni, e tanti, e tu sei morto.
Cioè, anche tu che avevi compagni hai smesso di respirare. Si dice
pure che “chi muore, vive nella lotta”. E, nonostante gli slogan,
nonostante quanto possiamo lottare qui, te resti morto. Non credo in
nessun dio, e nemmeno nell'aldilà: morto sei e morto resti. Però
forse questi due detti non significano che potrai mai tornare in
vita, ma che di sicuro non ci dimenticheremo di te. Eppure, il
ricordo non è sufficiente. Vorrei dire, il ricordo è addirittura
inutile, se non è seguito dall'azione. C'è una cosa di cui sono
certa: se muore un compagno, ci saranno altri dieci, altri mille, che
porteranno avanti le sue lotte. Avere compagni significa agire in
maniera collettiva, e, collettivamente, sappiamo che quando lottiamo
per la libertà, sia in Palestina o ovunque altro, in qualche modo lo
facciamo anche con te. Siamo fisicamente uno di meno, ma in quello
che collettivamente facciamo, te sei con noi. E, collettivamente,
sappiamo che un giorno vinceremo. E che in quella vittoria ci sarai
anche tu.
E comunque sia, fratello,
che ci hai lasciato una bella responsabilità! E ti pare il caso, io
dico, di andartene così? A metà del lavoro, lasciando una traccia a
malapena visibile per il futuro? Ci fosse un al di la, ti tirerei per le orecchie, altrochè!
E a noi non resta che rimboccarci le maniche, per fare si che almeno
un po' sia vero quel detto che dice che “chi ha compagni, non muore
mai”.
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