Siamo antifascisti e antirazzisti. Ed è esattamente per questo che siamo antisionisti. (Rete Italiana ISM)


venerdì 28 ottobre 2011

Racconto di un prigioniero deportato a Gaza


Loay Auda, nelle carceri israeliane dal 2002, è stato liberato durante l'ultimo scambio. Originario di Gerusalemme, è stato deportato a Gaza.

Il racconto dell'arresto inizia con le parole dalla madre, umm Izrod: “Era il 5 aprile del 2002, durante la seconda intifada. Mio figlio mi ha chiamata dicendo che finalmente potevamo incontrarci, potevo riabbracciarlo, vedere come stava. Era nascosto da 9 giorni a Ramallah, dove c'era il coprifuoco, perchè era ricercato dalle forze di occupazione sionista. In quegli interminabili 9 giorni non lo ho mai sentito, così siamo riusciti a trovarci in una casa di mia sorella, che lei non usava perchè era andata ad abitare altrove. Ci siamo seduti, abbiamo cucinato patate fritte e bevuto il caffè, poi Loay si è fatto una doccia, dato che da nove giorni non riusciva a farla, poi eravamo stanchi e siamo andati a dormire”. Sembra tutto tranquillo, finalmente una serata normale, ma non è così: “alle due di notte ho sentito dei rumori. Ho pensato fossero le pattuglie che controllavano il rispetto del coprifuoco, ma poi ho sentito i soldati che ci chiamavano con i nostri nomi: “venite fuori con le mani alzate” dicevano. Ho provato a svegliare mio figlio “alzati, alzati, ti stanno venendo a prendere!” e lui non si svegliava, chissà da quanti giorni non riusciva a dormire bene. Da fuori continuavano a chiamare i nostri nomi e cognomi. Lo ho svegliato con più energia, eravamo completamente circondati, non saremmo mai riusciti a scappare. I soldati tiravano pietre alle finestre, continuavano a chiamarci e noi non rispondevamo. Abbiamo cominciato a parlare dell'arresto, ci dicevamo l'un l'altra: “dobbiamo essere forti e non parlare, non dire nulla. Anche se ci tortureranno, dovremo resistere.” Ad un certo punto, in quella baraonda ci siamo trovati anche a scherzare e a prenderci in giro... Attorno a noi i sionisti avevano un gran dispiegamento di mezzi: elicotteri, carri armati, bulldozers... sembrava quasi che ci stessero per bombardare!”

“Alle 6.30 abbiamo sentito aprirsi la porta di casa. Erano andati a casa di mia sorella a prendere le chiavi, ed avevano usato i suoi figli come scudi umani per aprire la porta.” Evidentemente, l'uso di bambini come scudi umani non è una novità di piombo fuso ma una pratica consolidata. “Sono uscita, ed ho cercato di tenere impegnati i soldati, mi dicevano di chiamare mio figlio, io non volevo venisse perchè ero convinta che se fosse uscito gli avrebbero sparato.” Quando lui è uscito, la madre, terrorizzata, ha cercato di proteggerlo dai soldati con il suo corpo. I soldati si sono arrabbiati: “sono cinque ore che vi chiamiamo, che vi intimiamo di uscire, cosa siete, sordi?”.

“Hanno preso mio figlio e lo hanno messo sul marciapiede per interrogarlo. Io gli ho portato prima le scarpe e poi le sigarette, i soldati mi insultavano. Era completamente buio, per strada c'erano solo le forze dell'occupazione a causa del coprifuoco, ma vedevo i vicini che spiavano dalle finestre. Ho detto a mio figlio: “Tu sei il più grande. Li vedi tutti questi cani che ti circondano? Non valgono quanto la suola della tua scarpa. Resta forte che ti rilasceranno”. Lui mi ha risposto: “mi rilasceranno solo da vecchio” ed un soldato è intervenuto “spero che tu muoia prima di essere liberato”. Gli hanno messo la benda agli occhi e mi hanno chiamata per baciarlo l'ultima volta, lo hanno caricato sulla jeep ed è partito.”

Da questo punto in poi è Loay a raccontare come sono andate le cose. Sulla strada per la prigione la jeep si è fermata e lo hanno fatto scendere. Lo hanno tempestato con una pioggia di domande, minacciandolo di vendicarsi su sua madre (accusata di aiutare un “terrorista”) se non avesse parlato, e sfruttando il momento di possibile fragilità psicologica dell'arrestato. “Ad un certo punto mi hanno sollevato la benda e slegato mani e piedi -racconta- per vedere se fossi scappato. Se lo avessi fatto mi avrebbero sparato, ed io lo sapevo, quindi sono rimasto fermo.”

Il primo perido di detenzione, quello del cosiddetto “interrogatorio” è probabilmente il momento peggiore per ogni detenuto. Vengono applicate torture psicologiche e fisiche per cercare di ricevare informazioni sulle attività dei detenuti stessi ed anche su altre persone. L'interrogatorio di Loay è durato 55 giorni e si è svolto a Gerusalemme, nel carcere di Mascobyya, una ex chiesa russa occupata e sfruttata per gli interrogatori.
“Ero accusato di qualsiasi cosa, era durante la seconda intifada, stava succedendo di tutto. Volevano estorcere informazioni non solo riguardo le mie attività ma anche riguardo i miei compagni. Le torture erano più psicologiche che fisiche. I sionisti avevano imparato che se ci torturavano fisicamente rimanevano le prove, mentre le torture psicologiche erano più difficili da provare. Ci minacciavano di arrestare membri della nostra famiglia. Ci facevano stare legati ad una sedia per giorni consecutivi. Ci facevano stare legati in stanze con musica altissima.”

Loay è stato trasferito moltissime volte: all'inizio era rinchiuso ad Askalan, poi Beid Sheba, poi Ramla, poi Ashkaron, Gelboa, Shatta ed infine di nuovo Gelboa. “In carcere ci organizzavamo” racconta “i componenti di ciascun partito sceglievano un portavoce, ed i portavoce discutevano la strategia da adottare in maniera unitaria. Nessuno era autorizzato a parlare con i carcerieri eccetto colui a cui collettivamente si aveva dato quell'incarico”. Racconta che in carcere i prigionieri dovevano soppostare le violenze dei poliziotti, perquisizioni umilianti, punizioni collettive, giorni di isolamento se si fossero violate le regole. C'era solo un'ora o due di aria al giorno, le visite delle famiglie spesso erano proibite, il cibo era poco e la dieta non era salutare.

Ha partecipato all'ultimo sciopero della fame, e questo è il suo racconto in proposito: “La nostra richiesta principale riguardava la fine dell'isolamento. Chi era in isolamento veniva rinchiuso in una cella piccolissima da solo, l'ora d'aria, quando c'era, si faceva ad orari strani, lontani dagli altri carcerati e comunque legati. Dopo due anni in questa situazione le ripercussioni psicologiche sui detenuti cominciano a diventare davvero gravi. In quel momento più di 30 prigionieri si trovavano in isolamento, per periodi che andavano da un anno a 13 anni; 10 o 15 di questi erano in isolamento per lunghi periodi. Akhmad Sa'adat era al terzo anno di isolamento e la sua salute psicologica e fisica si stava deteriorando. Prima facevamo qualche breve sciopero, un paio di giorni al massimo, ma era venuto il momento di andare fino in fondo. La situazione poi era peggiorata anche dalla cattura del soldato Shalid, ci attaccavano di più per cercare di fare più pressione per il suo rilascio. Non potevamo studiare, non ci concedevano libri. Era venuto in somma il momento di farsi sentire. Ci eravamo organizzati per un'escalation delle proteste. All'inizio sono partiti a scioperare in 70-60, poi a questi ogni settimana si aggiungevano altre persone. Per esempio io mi sono aggiunto l'ultima settimana, col gruppo più grosso, c'erano già 420 persone e noi eravamo 300.” Lo sciopero non era ristretto al cibo, c'era anche una forma di non collaborazione dei detenuti verso i sionisti: “Avevamo smesso di collaborare alla conta, tutti insieme non ci alzavamo più in piedi quando era il momento, e per questo ci avevano privato in quel periodo di qualsiasi visita di famigliari o avvocati.” Nella carceri israeliane i prigionieri vengono contati più di una volta al giorno, quando passa il carceriere sono costretti a stare in piedi di fronte all'ingresso della cella, in condizioni normali se si rifiutano vengono puniti con percosse o con qualche giorno di isolamento.
Racconta che la repressione dello sciopero da parte dei carcerieri non era cosa di poco conto: “I sionisti non ci avevano lasciato nulla se non l'acqua, eravamo riusciti a nascondere il sale in alcuni interstizi dei letti, ma sono arrivati con l'acqua e lo hanno sciolto tutto. Ci avevano sequestrato i vestiti pesanti, e questo era problematico perchè durante lo sciopero della fame si sente più freddo del solito. Durante lo sciopero continuavano a trasferirci da una cella all'altra, da una prigione all'altra. Tre volte al giorno i soldati entravano e perquisivano le celle da cima a fondo, lasciando tutti i notri beni personali in centro alla stanza. Così noi, già debilitati dal digiuno, tre volte al giorno dovevamo raccogliere le nostre cose e rimetterle a posto. Ci hanno privato delle bottiglie, così quando dovevamo bere potevamo farlo solo andando tutti allo stesso rubinetto. Continuavano a raccontarci che nelle altre prigioni diversi compagni avevano mollato lo sciopero, ma sapevamo che non era vero.”

Gli ho domandato come avesse saputo che sarebbe stato liberato. Ha spiegato che si trovava in isolamento da qualche giorno come punizione perchè stava scioperando, e quindi non sapeva nulla dello scambio. “Sono uscito dall'isolamento e mi hanno detto che sarei stato liberato l'indomani. Non ci credevo, ero shockato, perchè in cella con me c'erano persone che erano dentro da più tempo e che avrebbero avuto la priorità. C'erano li con me persone che erano dentro da 27 anni e non erano state incluse nell'accordo.” Continua raccontando l'atteggiamento dei sionisti nei loro confronti alla luce di questo scambio. “I nomi di chi era incluso nell'accordo non erano chiari. I carcerieri si divertivano a giocare con i nostri nervi: un giorno arrivavano dicendo che eravamo liberi, ed il giorno dopo arrivavano dicendo che saremmo rimasti dentro. Non ho avuto la certezza di essere rilasciato fino a 10 minuti prima, quando sono venuti a prendermi. Anche quando venivano a prendere le persone per liberarle si divertivano a non farci sapere nulla: passavano in una cella, chiamavano uno e dicevano “vieni con noi”, senza dire dove lo portavano, poi tornavano, chiamavano un altro e dicevano “vieni con noi”. Fino all'ultimo momento non era chiaro quali nomi fossero inclusi nella lista.”

Loay, originario di Gerusalemme con altri 162 originari della stessa città o della West Bank, è stato deportato a Gaza. Sua madre e qualche fratello sono riusciti a venirlo a trovare perchè, proveniendo da Gerusalemme, hanno potuto attraversare il confine tra l'entità sionista e l'Egitto. Altre persone deportate dalla west bank non possono nemmeno essere visitate dalla famiglia. Spiega Loay: “Tra un anno 18 di noi potranno tornare nella west bank. Tra due anni altri 18. 55 potranno tornare a casa tra 10 anni e tutti gli altri, tra cui me, non hanno una data per il ritorno a casa, forse non potremo tornare mai.”

Loay è entusiasta del fatto che 1027 prigionieri siano stati liberati: “Questo scambio è stato un'occasione fantastica. Quando sei in carcere anche solo 5 compagni liberati significano tantissimo per te. Immagina la gioia nel sapere che 1027 verranno rilasciati! Questa è una vittoria anche per chi sta dentro, i miei compagni ancora in carcere sono riusciti a comunicarmi che sono felici che io sia fuori.” e poi lancia un appello: “Chiedo agli uomini e donne che stanno fuori dal carcere di pensare alla questione dei prigionieri come una questione unitaria, lontana dalla logiche di partito. Chiedo, in quanto essere umano, di fare appello alla vostra umanità perchè facciate pressione per la questione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.”

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